mercoledì 17 gennaio 2018

L'INCUBO DEL PD POST RENZI



Una fotografia non originale ma proprio per questo oltremodo realistica quella che Antonio Polito scatta all'Italia che si appresta al voto. Un paese che si propone diviso in tre non solo per tripartizione elettorale - centro destra, centro sinistra e grillini - ma anche per aree geografiche - il nord a destra, il centro al PD e il sud ai cinque stelle. 
E si perchè i pentastellati, che pure stavolta non sembrano godere del traino grillino (e nemmeno della regia fantasiosa di Casaleggio padre, scomparso), continuano ad avere un consenso solido, tanto da essere nettamente primo partito, ed egemoni al sud. 
La parola magica è "reddito di cittadinanza". 
Per regioni vissute con (e sulla) Cassa del Mezzogiorno prima, e sovvenzioni di varia natura poi, quale promessa più allettante che quella di recapitarti a casa uno stipendio se non lavori ? (poi magari arrotondi in nero, ma questo a chi importa ?).
 Naturalmente, il sud si propaga a noi romani e ad una parte dell'Italia centrale. Il PD pare reggere solo nelle regioni storicamente rosse, Emilia, Umbria e Toscana, forse Marche (di più) e Abruzzo (meno). 
Il centro destra pare forte nel lombardo veneto, uniche regioni dove la crisi sembra veramente in superamento (sia pur lentamente e a fatica), che infatti scaldano i motori per una maggiore autonomia (anche il Piemonte di Chiamparino la rivendica).
Personalmente, non ho buone sensazioni. Intanto non comprendo le ragioni del voto pentastellato. Va bene la protesta, ma è gente che dove va o cambia nettamente rotta (Pizzarotti a Parma, e anche Nogarin, sia pur meno, a Livorno), oppure fa male (Raggi a Roma, un vero disastro amministrativo, e sempre in odore di commissariamento). A Torino la Appendino, che godeva del fatto di essere arrivata a governare una città di suo piuttosto efficiente, non brilla certo.
Eppure non basta.  I grillini vanno generalmente male nelle elezioni locali, ma quando si tratta di sondaggi nazionali, stanno sempre attorno al 30% dei votanti (poi ci sono gli astenuti, un altro terzo circa, sperando non aumentino !). 
Perché ?  Perchè gli altri sono peggio...Perché sono onesti (c'è chi ancora lo dice) o meno ladri ( ecco, già se po' più sentì, ma solo perché finora non governano!).
Come spesso succede, chi parte troppo favorito nei sondaggi iniziali, poi frena. Sta capitando al centro destra e non mi stupisce.  
La gente moderata e di centro destra, forse ancora la maggioranza relativa di questo paese, tende verso il suo campo, a prescindere dai leader e dai programmi ventilati.
Poi però li sente parlare, questi leader..., e forse s'imbarazza pure un po' delle promesse : flat tax al 20% (????????), via la legge Fornero (ok, ma i conti della previdenza ? ), via il Jobs Act (e ritorno dell'articolo 18 ??? roba da Grasso, Boldrini e pattume politico del genere). Per non parlare di un Cavaliere quasi 82 enne, imbarazzante per i lifting, o del maglioncino sgualcito di  Salvini. Meglio la Meloni, che però pesa poco, e non solo perché è mingherlina.
Tutto sommato, al netto delle leggi sui diritti civili, sempre in scia radical humor, il governo Gentiloni, con Minniti e Calenda ministri pratici e concreti, Padoan meno infastidito dalle velleità renziane, non è stato malvagio. 
Un domani che, come probabile che sia, non ci sarà una maggioranza parlamentare senza ricorrere ad alleanze, quella con quel PD non sarebbe poi male, ma Salvini (e anche la Meloni) non accetterà mai. 
Quindi ? 
Bel rebus.  Escludo che il centro destra da solo conquisti la maggioranza assoluta - e aggiungo che è pure giusto se il consenso non arriva nemmeno al 40% !! - , il PD se lo sogna, e spero e credo che anche il M5S non avrà exploit di quel tipo. 
A quel punto quali alchimie potrà pensare il presidente della Repubblica ?  PD (25%) e Forza Italia (15/20%), da soli, non ce la farebbero...
Un incubo prende forma.
Gli anti renziani fanno fuori finalmente Matteo, reduce dall'ultimo insuccesso, e la sinistra si ricompatta e si riprende il partito.
A quel punto il PD a trazione sinistra, o comunque alleabile con i liberi e belli di Grasso, trovano una quadra governativa con i 5 Stelle, basata su diritto di cittadinanza, abolizione del jobs act, della legge Fornero, chissà quale politica sulle immigrazioni e quale politica fiscale in considerazioni delle voragini aperte dalla brillante politica economica nel già drammatico debito pubblico. 
Come detto, un incubo.
Speriamo resti tale




Un Paese diviso in tre parti

Il Pd rischia di crollare al Sud. E più va giù, più i Cinquestelle vanno su. Il centrodestra resta in vantaggio al Nord. Resta da capire se i dem troveranno un’idea in grado di competere sul piano programmatico con le due proposte, una nordista e l’altra sudista, dei suoi concorrenti

di Antonio Polito

Illustrazione Guido Rosa

I sondaggi stanno cambiando. Dopo un avvio bruciante, che lo ha lanciato come il grande favorito, il centrodestra non è più così sicuro di fare la maggioranza. La ragione non sta in un suo calo, ma in quello che secondo alcuni analisti potrebbe diventare un vero e proprio crollo del Pd nel Sud. Infatti più il partito di Renzi va giù, più i Cinquestelle vanno su. E, per il complesso sistema dei vasi comunicanti di questa corsa elettorale a tre, più i grillini vanno su e più i collegi uninominali che il centrodestra considerava sicuri smettono di esserlo. Questo fenomeno è rilevante soprattutto al Mezzogiorno, dove il vantaggio della coalizione berlusconiana non appare incolmabile come al Nord. Si sta dunque profilando uno scenario in cui il tripolarismo politico può diventare anche geografico: un centrodestra egemone al Nord, i Cinquestelle dilaganti al Sud, il Pd confinato al Centro. Alcune delle cause di questa ripartizione sono antiche, e dunque non sorprendono: la Seconda Repubblica è nata un quarto di secolo fa proprio per lo spostamento a destra dell’elettorato settentrionale rimasto orfano della Dc. Ma altri aspetti sono del tutto inediti: il Mezzogiorno infatti è da sempre governativo, vota per chi ha il potere o sta per raggiungerlo, sperando che questo gli porti sostegno economico e protezione sociale.

La scelta per i grillini potrebbe apparire dunque del tutto incongrua, vista la scarsa probabilità che, pur arrivando primo alle elezioni, Di Maio possa poi davvero trovare le alleanze necessarie per andare a Palazzo Chigi. Senza contare che il Pd governa la Campania, la Puglia, la Basilicata, la Calabria, e fino a qualche mese fa anche la Sicilia. Eppure, se si osserva con attenzione lo svolgimento fin qui della campagna elettorale, si può forse individuare con chiarezza la leva che ha messo in moto questo processo. È chiaro che il Nord che produce è interessato innanzitutto a un forte taglio fiscale, e questo è esattamente ciò che propone il centrodestra con la flat tax, in versione hard alla Salvini o soft alla Berlusconi. Mentre il Sud, che ha il record di laureati non occupati, di Neet, cioè di giovani che non studiano e non lavorano, e di proletariato «in nero» nell’economia sommersa, è molto più interessato a un intervento assistenziale da parte dello Stato, e la proposta dei Cinquestelle del salario di cittadinanza è forse la più imponente promessa di spesa pubblica dai tempi della Cassa per il Mezzogiorno (che però, almeno nella sua concezione originaria e nella prima fase, era orientata a generare investimenti e sviluppo, non sussidi). Forse non è dunque un caso se Luigi Di Maio, meridionale e senza lavoro anch’egli fino a cinque anni fa, abbia scelto Il Mattino di Napoli per presentare nel dettaglio il suo programma, nel quale campeggia la promessa di un salario di 1.950 euro mensili a ogni famiglia che risulti senza lavoro, con due figli a carico maggiori di 14 anni.


Resta da capire se il Pd troverà nei prossimi giorni un’idea di politica economica in grado di competere sul piano programmatico con le due proposte, una nordista e l’altra sudista, dei suoi concorrenti, e che non sia troppo stantia, tipo il rilancio del taglio del cuneo fiscale. Le soluzioni fin qui avanzate sono state poi presto abbandonate, dallo sfondamento del deficit a Bruxelles fino al salario minimo di dieci euro, così che nessuna ha assunto il carattere di una vera proposta programmatica. Naturalmente, come ha sottolineato Bill Emmott su La Stampa del 15 gennaio, flat tax e reddito di cittadinanza soffrono entrambe di una scarsa credibilità, perché chi le propone non ha ancora spiegato come possa combinarle con i vincoli del deficit; e, se violasse quei vincoli, come potrebbe continuare ad andare sul mercato internazionale dei capitali per finanziare il debito pubblico. Non si può escludere dunque che in una terza fase della campagna elettorale — e questo è palesemente ciò su cui sta puntando Renzi — questi nodi vengano al pettine e il Pd si riprenda nei sondaggi sospinto dalla paura dell’avventura, visto che la quota maggiore di indecisi è proprio nel suo elettorato. Ma scommetterci non è prudente. Non sarebbe infatti la prima volta che proposte difficilmente realizzabili vengano premiate dall’elettorato. E sarebbe in ogni caso imperdonabile per chi ha governato negli ultimi cinque anni presentarsi alle urne semplicemente riproponendo ciò che ha già fatto, e che certo oggi non appare in grado di garantirgli il consenso del Paese.

Nessun commento:

Posta un commento