domenica 20 novembre 2016

LUCA RICOLFI E L'OTTUSITA' IGNORANTE DEI POLITICAMENTE CORRETTI

Risultati immagini per politically correct

Pensavo sinceramente di trovare prima analisi  interessanti e non banali sulla vittoria di Trump, e invece ho dovuto attendere i "miei" consueti, consolidati opinionisti di riferimento.
Forse mi è sfuggito l' intervento di Panebianco, clintoniano (è un po' che non lo incrocio sul Corsera, ma, appunto, potrebbe essere una mia distrazione) però ho recuperato questo di Luca Ricolfi, come sempre prezioso.
Due cose a mio avviso spiccano sulle altre :
1) Se anche avesse vinto la Clinton, che alla fine ha preso anche più voti del rivale, o il Remain in Gran Bretagna o il 4 dicembre prossimo continuasse a spuntarla, per poche migliaia di voti, il candidato verde alla presidenza austriaca contro Hofer, il concorrente della destra oltranzista e, si dice, xenofoba, sarebbe - sarà - comunque emerso un elemento estremamente serio : la spaccatura dei vari paesi, una divisione netta tra due visioni opposte e questo non è mai bene per la serena convivenza sociale.  Un conto è quando prevale un "centro" di volta in volta spostato un po' più a destra (liberali-conservatori) o a sinistra (socialdemocratici, riformisti ), un conto, come in questi casi, che vinca una parte nettamente contrapposta all'altra. Può accadere, in democrazia, ma allora è auspicabile che il consenso della parte prevalente sia più netto, per evitare inquietudini sociali gravi, che possono portare anche a forme di ribellione destabilizzante. Insomma, se avesse vinto la Clinton, di un soffio (così come ha perso), sarebbe stato un errore ignorare che un candidato radicale, "estremista" come Trump era arrivato ad un passo dal successo.
2) La rivincita contro quelli del "politicamente corretto".  Io ho scritto varie volte che, se fossi stato americano, montanellianamente mi sarei turato il naso e avrei votato la Clinton, reputando illiberale uno come Trump. Quindi non sono contento dell'esito delle elezioni. Però nemmeno uso i toni da tragedia della "sinistra" gente, e anzi provo una qual certa soddisfazione al loro lutto. Ancora una volta, non ne conto più quante, la loro prosopopea, la loro visione "illuminata" di un mondo non com'è ma come - per loro, ovvio - dovrebbe essere, è andata delusa.
Hanno pianto per 20 anni con Berlusconi, ora piangono per la Brexit e per Trump. Una vera valle di lacrime.
Si consolano continuando a pensarsi "migliori", disprezzando la gente che non è come loro, e ogni volta dicono che "cambierebbero paese" (di volta in volta, l'Italia, la GB, ora gli USA).
Attenti che diventate apolidi.



Gli Stati Uniti nell’era trump

In quel voto liberatorio la Waterloo del politicamente corretto


 
I media di tutto il mondo sono in lutto, e non cessano di autoflagellarsi: non abbiamo capito che Hillary Clinton poteva perdere, non abbiamo capito l'ampiezza del consenso a Donald Trump, non abbiamo capito il disagio degli elettori bianchi della classe media e operaia americana. Qu esta autoflagellazione può avere qualche utilità (un bagno di umiltà non fa mai male), ma ho l'impressione che sia leggermente fuori bersaglio.
Innanzitutto sul presunto clamoroso errore dei sondaggi. Sì, i sondaggi degli ultimi giorni davano un leggero vantaggio alla Clinton, ed è molto probabile che i sondaggisti americani non li abbiano aggiustati (o li abbiano aggiustati troppo poco) per tenere conto del cosiddetto “effetto desiderabilità sociale”, un fenomeno noto da almeno 25 anni, ma che non si è ancora imparato a trattare efficacemente dal punto di vista statistico: l’elettore che preferisce un’alternativa che molti considerano squalificante tende a non rivelarsi nelle interviste, salvo poi esprimersi nel segreto dell’urna. E tuttavia, a ben guardare i dati, l’errore commesso dai sondaggisti non è così clamoroso: Hillary Clinton, data leggermente in vantaggio su Trump negli ultimi sondaggi, ha raccolto più e non meno consensi del rivale, ed è stata solo la distribuzione territoriale dei voti che le ha impedito di conquistare abbastanza grandi elettori da consentirle di accedere alla Casa Bianca. Se si contano i voti, quello di martedì scorso è stato un sostanziale pareggio, non un trionfo di Trump.
Ora proviamo a chiederci: se il voto avesse avuto una distribuzione territoriale un po’ diversa, e la Clinton avesse vinto (con i medesimi voti con cui ha perso), che cosa avrebbero scritto quegli stessi media che ora si autoflagellano? Avrebbero speso altrettante lacrime sui perdenti della globalizzazione, sulle tragedie della deindustrializzazione, sul declino del ceto medio, sul disagio degli operai bianchi?
Credo proprio di no. Oggi saremmo qui a cantare la saggezza del popolo americano, la maturità della democrazia statunitense, la capacità del sistema politico del più importante Paese del mondo di fronteggiare vittoriosamente l’onda populista.
Che cosa intendo dire con questo esperimento mentale?
Quello che vorrei provare a suggerire è che, è vero, dal punto di vista politico la vittoria di Trump ha cambiato l’America, la vittoria della Brexit ha cambiato l’Europa, e la eventuale vittoria del leader xenofobo Norbert Hofer in Austria il prossimo 4 dicembre potrebbe cambiare l’Austria.
Ma dal punto di vista dell’analisi sociologica, della riflessione sulla cultura e sul costume, nulla di sostanziale sarebbe risultato diverso se questi tre grandi assalti all’establishment delle forze populiste si fossero conclusi con la loro sconfitta, perché il dato di fondo è, resta, e sarebbe comunque restato il medesimo, ovvero la spaccatura fifty-fifty dell’elettorato: una vittoria della Clinton non avrebbe cancellato il fatto che metà degli americani le preferisce Trump, una vittoria di misura del Remain non avrebbe cancellato il fatto che circa metà degli inglesi sono per la Brexit, così come una vittoria (di misura) del candidato verde alle elezioni presidenziali austriache non cancellerebbe il fatto che circa metà degli austriaci si è espressa per un candidato xenofobo.
Quel che mi colpisce, in altre parole, non è che Trump abbia vinto e sovvertito i sondaggi (cosa che mi aspettavo), ma che abbia dovuto vincere perché qualcuno si accorgesse di quella metà dei cittadini di cui poco si parla, ma che era già lì, sotto gli occhi di tutti, proprio perché la maggior parte dei sondaggi davano un testa a testa, oggi in America con le presidenziali, ieri nel Regno Unito con il referendum sulla Brexit.
È come se solo la vittoria elettorale avesse il magico potere di spostare l’attenzione su una enorme porzione dell’elettorato, di cui si conosce perfettamente l’esistenza ma che, stranamente, non si prende in considerazione finché un leader non se ne fa interprete e riesce a conquistare il potere politico.
Da questo punto di vista le vittorie della Brexit e di Trump hanno anche un risvolto positivo: costringono le classi dirigenti ad accorgersi anche della “seconda metà”, che fino a ieri erano tranquillamente riuscite a ignorare. Qui, però, si incontra un altro problema: capire chi siano gli abitanti della “seconda metà” non è facile. Oggi in molti paiono convinti che si tratti dei perdenti della globalizzazione, soprattutto operai bianchi le cui fabbriche hanno chiuso o sono state delocalizzate.
I primi dati sulla composizione del voto pro-Hillary o pro-Trump fanno però sorgere molti dubbi su questo genere di lettura. Se si trascurano alcune categorie nettamente pro-Hillary (donne nere e ispaniche) quel che colpisce è la trasversalità, socio-demografica e di classe, del voto a Trump. Il voto a Trump supera il 40% in tutte le fasce di reddito, senza grandi differenze fra ricchi e poveri. Le differenze fra istruiti e non istruiti, fra donne e uomini, giovani e vecchi ci sono, ma non sono mai grandissime. Anche le categorie spesso dipinte come sostenitrici di Hillary e ostili a Trump, forniscono un supporto elettorale tutt’altro che residuale a Trump: le donne che lo votano sono il 42% (54% per Hillary), i laureati il 45% (49% per Hillary), i giovani il 37% (55% per Hillary). E persino fra gli ispanici, il voto a Trump sfiora il 30%.
Questa trasversalità, a mio parere, ridimensiona un po’ le spiegazioni che insistono sui danni della globalizzazione. Che la globalizzazione e il progresso tecnologico abbiano prodotto notevoli drammi sociali è cosa indubbia, e spesso denunciata nella letteratura, nella musica e nel cinema (si pensi a Bruce Springsteen, o a Ken Loach). E tuttavia la trasversalità del voto a Trump ci fa intendere che, verosimilmente, il consenso che è riuscito a intercettare ha una matrice assai più generale.
Ad esso, a mio parere, hanno contributo anche due elementi ulteriori. Il primo è l’incapacità dei democratici di mantenere la promessa di ridurre le diseguaglianze, che sono anzi leggermente aumentate durante gli otto anni della presidenza Obama. Da questo punto di vista, l’enfasi degli economisti progressisti sulla “crescita esponenziale delle diseguaglianze” e la stasi del reddito dell’americano medio è stata un boomerang politico: dopo 8 anni di Obama, il conto non poteva essere presentato a Bush.
Il secondo, forse più importante, fattore del successo di Trump è l’insofferenza per gli eccessi del politicamente corretto, che in America ha largamente oltrepassato ogni soglia del buon senso e del ridicolo. Da questo punto di vista il voto a Trump è stato anche un gesto liberatorio, o “un vaffa-day pazzesco”, come prontamente lo ha definito il comico Beppe Grillo.
Ma liberazione da che cosa? E liberazione di chi?
Liberazione dal marchio di infamia che una parte della società americana, la parte bassa, sente sopra di sé. Spiace doverlo ricordare, ma – che lo si voglia o no – il politicamente corretto e i suoi derivati sono straordinarie macchine generatrici di distinzione sociale. Servono a definire un sopra e un sotto, un alto e un basso, un “noi civili” e “voi barbari”.
Non per nulla Hillary ha definito deplorable gli elettori di Trump e, dopo la sconfitta, non ha trovato di meglio che rivolgersi ai suoi chiamandoli the best of America, la stessa formula («la parte migliore del Paese») che, nell’era di Berlusconi, ha reso la sinistra antipatica a metà degli italiani.
La trasversalità del voto a Trump, forse, ci segnala proprio questo: che la rivolta contro l’establishment non è solo una rivolta dei poveri contro i ricchi, o dei perdenti contro i vincenti, e tantomeno dei ceti popolari, razzisti e xenofobi, contro le élite illuminate e i ceti medi riflessivi. No, quella rivolta esprime anche, se non soprattutto, il rifiuto di una parte della società americana, che non aderisce al credo dei benpensanti del nostro tempo, di essere stigmatizzata per le proprie idee, per i propri sentimenti, per il proprio modo di parlare: “loro adesso la smetteranno di chiamarci ignoranti, bigotti, razzisti, sessisti”, dichiarava dopo la vittoria di Trump un cacciatore, pastore metodista. Una reazione che mostra che, dietro il voto a Trump, c’è anche una sorta di richiesta di cittadinanza, di riammissione nel consesso delle persone degne di rispetto. Un consesso che, a quanto pare, negli ultimi anni aveva finito per diventare un po’ troppo esclusivo.

Nessun commento:

Posta un commento