giovedì 20 ottobre 2016

SE VINCE IL NO IL MONDO NON FINIRA'. ECCO PERCHE'

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Man mano che si avvicina il 4 dicembre, giorno del D Day referendario - salvo ulteriori slittamenti - diversi amici mi chiedono cosa voterò. Chi legge il Camerlengo o è mio amico su FB sa che sono orientato sul NO, ma in maniera piuttosto problematica.
Più precisamente, io non voterei NO perché :
1) la nostra è la Costituzione più bella del mondo e quindi voglio che rimanga com'è . Non lo penso, credo che abbia dei vulnus anche storici, legati ai compromessi necessari dal venire da un passato dittatoriale, dalla presenza di un partito comunista e una sinistra massimalista molto forti, e poi delle variazioni le ha avute e NON positive, come il famigerato capitolo V, sul quale torneremo)
2) va difeso il sistema Parlamentare rispetto ad un governo che diverrebbe troppo forte . Non lo penso : da tempo immemore il Parlamento non è che il luogo che ratifica le decisioni prese altrove e la maggior parte degli eletti sono dei peones invertebrati terrorizzati all'idea di perdere la remunerativa poltrona che si sono trovati ad occupare per grazia ricevuta (non certo per volontà degli elettori, visto il sistema delle liste bloccate e formate dalle segreterie, da un lato, e la barzelletta delle "parlamentarie" via web dall'altra). Mi sta bene un sistema che dia più spazio all'esecutivo, ho sempre auspicato un presidenzialismo all'americana.
3) Bocciando la riforma si boccia anche la legge elettorale, e si favorisce il ritorno del sistema proporzionale, il più corrispondente al rispetto della rappresentanza degli elettori.  Il primo aspetto mi solletica molto, anzi forse alla fine sarà il decisivo, il secondo per nulla. Io non auspico un sistema proporzionale puro, votai a suo tempo per il maggioritario e tuttora lo preferisco. Ma il pasticcio dell'Italicum non va bene.
Tra l'altro provo imbarazzo nel leggere che, votando no, sarei in compagnia di persone che stimo non troppo (Zagrebelsky , Monti) o per nulla (Flores d'Arcais, Asor Rosa). per non parlare della CGIL o dell'ANPI.
Allo stesso tempo, rispondendo alle ragioni di quelli del SI, penso che :
A) Le leggi dovrebbero essere scritte bene, figuriamoci quelle costituzionali. Questa NON lo è.
B) Il concetto di "ok, si poteva fare meglio ma intanto iniziamo" mi convince poco o nulla. Se un criterio del genere posso digerirlo, con qualche fatica, in sede di legislazione ordinaria, in campo costituzionale direi proprio di no. Sia perché si tratta della Carta fondamentale della nostra convivenza sociale, sia perché se modificare, migliorandola e/o completandola, una legge ordinaria è cosa non impervia, ovviamente non è così in campo costituzionale. Quindi, se ci metti le mani, lo devi fare bene.
C) Non mi piace il metodo del "bere o affogare", invece caro ai nostri governanti (basti pensare ai super emendamenti, dove ci possono essere centinaia di commi e sotto, e tu devi votare il pacchetto unico). Sono molti gli articoli della Carta interessati dalla riforma, e io per esempio sono d'accordo sulla eliminazione del CNEL, delle Province. Se i quesiti fossero separati questi io li approverei. Sono ASSOLUTAMENTE favorevole alla modifica del tragico capitolo V , il finto "federalismo" in salsa prodiana, una vera iattura. Ma NON approvo la modifica dell'elezione del Capo dello Stato e sul Senato, che avrei abolito del tutto, se invece rimane con delle competenze sia pure ridotte, allora che sia eletto , e non quel giochino abominevole di fare senatori un centinaio di soggetti eletti in elezioni del tutto diverse, quelle amministrative.
MA SOPRATTUTTO, se il nucleo della riforma è la semplificazione dell'iter legislativo e i maggiori poteri dell'esecutivo, concetti che , in sé, NON mi vedono contrari, è però indispensabile che l'unica camera eletta, che poi legittimerà il governo, con il premier già scelto nelle urne, sia espressione di un DECENTE consenso popolare.
Era considerata legge truffa quella di De Gasperi che assegnava il premio di maggioranza con il 50%+1 dei voti in un'Italia dove andava a votare il 90% e passa dei cittadini, malati compresi.
Oggi va considerato "moderno" che il potere di governare spetti alla minoranza meno debole.
Rispetto ai grillini, io sono disposto a considerare renzino il male minore, però sta cosa dell'Italicum proprio la deve cambiare.
Intanto propongo un interessante articolo di Riccardo Levi che spiega in modo convincente perché il sole, anche in caso di vittoria del no, continuerà a sorgere, a dispetto dei catastrofismi dei renziani (ovviamente, vale anche il viceversa...).
Buona Lettura




Referendum, le ragioni per votare con serenità

di Ricardo Franco Levi

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Al 4 dicembre, giorno fissato per il referendum costituzionale, mancano ormai meno di sette settimane. Quel giorno sarebbe bene che gli italiani e le italiane potessero fare serenamente la propria scelta guardando solo alla riforma della Costituzione oggetto del quesito referendario.

A questo fine, è importante sgomberare il tavolo da una questione in grado di condizionare ogni altra valutazione: la previsione che un No porterebbe all’immediata caduta del governo e in tempi stretti a nuove elezioni e che, determinata dall’improvvisa instabilità politica, si avrebbe una crisi finanziaria destinata a sfociare in un «default» dell’Italia, cioè nell’incapacità dello Stato di garantire i propri debiti.

Sono in molti a prospettare o l’uno o l’altro o entrambi questi scenari. Se ne trovano tra i sostenitori del Sì, presentato come l’unica difesa capace di scongiurare il disastro. Se ne trovano tra i sostenitori del No, visto come la grande occasione per porre fine al governo Renzi.

La realtà è che questi scenari catastrofici non tengono conto di due fondamentali elementi: uno economico/finanziario, l’altro politico/istituzionale. Quanto alla finanza, la vera determinante nel garantire la relativa stabilità del mercato dei titoli di Stato — perché è di questo che stiamo parlando — è la politica monetaria delle banche centrali e, per quel che ci riguarda, della Banca centrale europea. Tanto più che il referendum avverrà — e da questo punto di vista è stata una scelta saggia quella di fissarlo a dicembre — a legge di Bilancio già approvata dal governo e già sottoposta al giudizio di Bruxelles.

Fino a che la Bce guidata da Mario Draghi garantirà ampia liquidità ai mercati e con questo schiaccerà verso il basso i tassi d’interesse — al punto che persino la Finlandia, negli ultimi anni una delle peggiori economie europee, è riuscita a collocare titoli a 10 anni con un rendimento sotto lo zero — è assai improbabile che eventuali crisi politiche possano tradursi in gravi e durature crisi finanziarie.

Ne sono prova l’andamento dei titoli spagnoli, da mesi sostanzialmente impermeabili a un’assenza di un vero governo e, proprio pochissimi giorni or sono, lo spettacolare successo, con una domanda più di tre volte superiore all’offerta, del lancio da parte dell’Italia di un titolo con una scadenza mai vista prima, addirittura a 50 anni. Segno che l’enorme liquidità in cerca di investimento ha permesso di superare di slancio anche i consolidati timori per la malferma salute delle nostre banche e per l’altissimo livello del debito pubblico e quello più recente per il possibile risultato del referendum.

Proprio a questo tornando e per quanto si riferisce alla politica, la storia delle crisi di governo ci dice che l’eventuale vittoria del No non ci porterebbe affatto all’unico e immediato sbocco di nuove elezioni e che il calendario istituzionale seguirebbe, sotto la guida competente, esperta e prudente del presidente Mattarella, le strade segnate dai suoi predecessori.

Se del caso, lungo quelle tracce sarebbero, dunque, queste le più che probabili tappe: 1) Salita al Quirinale del presidente del Consiglio per la presentazione delle dimissioni del governo. 2) Rinvio del premier alle Camere per verificare con un voto di fiducia la presenza di una maggioranza parlamentare a sostegno del suo governo. 3) Nel caso di un voto positivo, ritiro delle dimissioni e prosecuzione della normale attività di governo. 4) In caso di bocciatura, consultazioni per verificare la possibilità — pienamente legittima in una democrazia parlamentare come la nostra — di completare la legislatura con un diverso esecutivo. 5) Se anche questo risultasse impossibile, la via d’uscita sarebbe quella di un governo incaricato di portare il Paese al voto con il duplice e ristretto mandato di approntare una nuova legge elettorale e di gestire l’economia nel segno dello sviluppo e del risanamento. L’esempio al quale fare riferimento sarebbe ovviamente quello dell’esecutivo guidato tra il 1993 e il 1994 da Carlo Azeglio Ciampi. Anche in quest’ultimo caso, sarebbe, comunque, assai difficile andare al voto prima del 2018. Come si vede, la strada sarebbe comunque lunga e quasi certamente priva d’improvvisi salti nel vuoto. Il 4 dicembre potremo (e dovremmo) votare con serenità.

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