lunedì 18 luglio 2016

BREXIT, GOLPE AUSPICATI...L'ESTATE DIFFICILE DEL CONCETTO DI DEMOCRAZIA

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E' stato un we di eventi tragici e paurosi.  La settimana era già stata travagliata dalla tragedia ferroviaria occorsa in Puglia, ma ad oscurare - questo purtroppo succede, l'animo umano si "distrae" con facilità, quando non è direttamente coinvolto - i fatti e le responsabilità di quell'episodio, ecco la strage di Nizza, con decine di persone travolte ed uccise dal folle terrorista islamico (si signori, con buona pace di chi vorrebbe escludere la matrice islamista, il tipo era tutte quelle cose insieme : folle, senza dubbio, ma anche infarcito di propaganda fondamentalista e terroristica).
Subito dopo, il tentativo di golpe in Turchia, dove veramente si è visto il peggio delle umane contraddizioni, unito al cinismo, a volte un po' vile, della realpolitik.
Non ci siamo fatti mancare NULLA su questo fronte.
Dal complottismo, sempre in carriera, per cui c'è gente che a bordo piscina è pronta a giurare sulla testa dei figli che il golpe se l'è inventato Erdogan per proseguire in modo più rapido e duro verso l'islamizzazione autocratica della Turchia, da tempo in atto, al tifo per le forze armate portatrici di democrazia (e pazienza se in passato i putsch militari sono sempre stati condannati per l'opposto), alla condotta incerta e francamente imbarazzante delle cancellerie mondiali, specie europee, timorose di prendere posizioni ufficiali finché non fosse stato chiaro chi avrebbe vinto.
Su Sky 24 c'è stato un'opinionista che, confidando nelle prime notizie che davano il golpe riuscito ed Erdogan in fuga ( al cui aereo addirittura Germania e Gran Bretagna rifiutavano il permesso di atterrare !! Notizia ovviamente poi non confermata da alcuno, però pure questo nella notte è toccato sentire ), esprimeva tutto il suo plauso per l'esercito turco che "tradizionalmente" era il custode della laicità in Turchia e quindi giustamente alla fine era intervenuto contro la deriva semi teocratica del Sultano.
Brutta figura la sua, da un punto di vista di esperto. L'esercito in realtà è rimasto a guardare, non contrastando l'avventurosa iniziativa di alcuni reparti, ma nemmeno assecondandola.
Non credo che Erdogan apprezzerà questa "neutralità", e molte teste, anche tra gli ignavi, cadranno (chissà se solo in senso figurato, che l'uomo non è affatto tenero).
Quanto alla teoria del complotto, ebbene gli adepti di Giulietto Chiesa e soci hanno dalla loro  la "verosimiglianza" delle loro tesi, che si reggono su sofismi non provati ma non illogici.  Oggi che il golpe è finito male, Erdogan stringerà ancora di più la morsa contro gli oppositori, e ha iniziato a farlo subito, prendendosela non solo contro i militari infedeli ( e tali sono anche quelli rimasti a guardare) ma anche con i giudici del paese, rei di essere tra i difensori di uno stato di diritto "Laico",  tutelante i diritti civili e gli aspetti secolari della Costituzione, che infatti Erdogan vuole mutare.
Ferrarella , giornalista che notoriamente io NON apprezzo, nel suo commento - che per lo più non condivido - pone però un quesito di portata significativa ed obiettiva.
Quando un uomo arriva al potere legittimamente, cioè attraverso le elezioni, e poi fa strame del sistema democratico al cui vertice è giunto, qual è la giusta reazione di chi quel sistema vorrebbe difendere ?
In fondo, anche Mussolini e Hitler delle elezioni le vinsero, sia pure con carte non del tutto limpide (il primo era stato nominato capo del governo addirittura dopo la marcia su Roma, il secondo non aveva certo la maggioranza assoluta del Reichstag, per quanto godesse della minoranza "più forte", quella che dovremmo farci andare bene, secondo i modernisti elettorali).
Erdogan sono un paio di lustri che vince ogni elezione, e questo dimostra che i laici e i fautori di una Turchia laica ed europea sono assolutamente minoranza, per quanto si possa confidare non irrilevante. Questo giustifica uno stravolgimento del sistema istituzionale, come il Sultano sta facendo ?
Personalmente direi di no, ché da liberale condivido i pericoli e quindi la necessità di arginare la possibile "dittatura della maggioranza" ( Tocqueville dixit) .  Però fino a che punto e, soprattutto, in che modo si può farlo ?
A Ferrarella non piace (nessun dubbio poteva esserci) la Brexit, non gli piaceva Morsi in Egitto (Al Sissi gli piace ? che differenza vede con Mubarak ? ) , non gli piace Erdogan in Turchia.
A denti stretti ammette che però tutti i fenomeni a lui sgraditi hanno ricevuto la legittimazione del voto, e quindi è costretto a porre dei dubbi sul sistema democratico.
Come ho detto, questi ultimi hanno una loro valenza, ma sfuggono le soluzioni, alternative a sistemi fascisti, dittatoriali.
Non posso pensare (ma in fondo poi lo faccio) che questa "bella gente" in realtà non vedrebbe poi male l'avvento di uomini forti, a condizione che questi poi però realizzino politiche di loro gradimento.
Ferarrella , come del resto palesò esplicitamente un suo "maestro", l'ex professore emerito Asor Rosa, credo appartenga a questa "bella gente".



Il tessuto democratico e i molti capogiri della «realpolitik»

di Luigi Ferrarella

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Da Londra la Brexit fa la domanda e, in assenza di risposte, dalla Turchia la ripropone l’apparente tentato golpe. Sembrano, e ovviamente sono, eventi diversissimi tra loro. Accomunati, però, dal marcare un’estate 2016 che passerà alla storia come quella che ha messo in tensione, fin quasi a strapparlo in qualche punto, il tessuto del concetto di democrazia.

Con il referendum inglese vinto da 17,4 milioni di fautori dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea contro 16,1 milioni di contrari, i destini di un intero continente e gli interessi di 508 milioni di cittadini dell’Unione Europea sono stati stravolti dalla scelta di una ultraminoranza nella Ue, nel contempo però maggioranza relativa di una libera consultazione diretta convocata dal premier del proprio Paese e risoltasi sul filo del 51,9 contro il 48,1 per cento. E il margine risicato, l’abbuffata di bugie e dati falsi che (specie sull’immigrazione) hanno alimentato la campagna referendaria, il quasi-pentimento del giorno dopo, e in precedenza la sensazione (e a volte l’esplicita dichiarazione) di un voto non consapevole sul merito ma ritorsivo in chiave di politica interna, sono stati tali da ridare persino un qualche fiato alle teorie che vorrebbero «pesare» i distillati diritti di voto dei supposti «saggi», anziché «contare» i diritti universali di voto degli asseriti «ignoranti».

Ora arriva il tentato golpe turco. Di un regime che non ha certo cominciato adesso a fare piazza pulita degli oppositori, a chiudere i giornali sgraditi, a buttare in galera avvocati e giornalisti, e che con l’occasione o il pretesto di un tentato golpe incarcera due giudici costituzionali con 58 membri del Consiglio di Stato, rimuove altri 2.745 magistrati e ne arresta già 456, solitamente nessuna Cancelleria occidentale saluterebbe «il ripristino delle istituzioni democratiche». E invece è quello che succede al regime di Erdogan. Dipende forse dal fatto che lo si ritenga legittimo in quanto frutto di votazioni (relativamente) libere e regolari? Se fosse questo il criterio, allora non soltanto ci sarebbe da camminare sulle uova nel giudicare ad esempio gli atteggiamenti verso gli interventi militari in Egitto nell’altalena Mubarak-Morsi-Al Sisi dal 2011 a oggi; ma bisognerebbe spiegare perché nel 1992 furono salutati con favore i militari che in Algeria cancellarono con un sanguinoso colpo di Stato il successo del Fronte islamico di salvezza che aveva appena vinto le elezioni amministrative e il primo turno di quelle politiche, strappo che poi per anni ha gettato benzina sul fuoco del terrorismo di matrice estremista islamica. Senza contare che l’esclusivo parametro della legittimità elettorale finirebbe con il definire ed esaurire una democrazia soltanto nel suo momento genetico nelle urne, e non anche nel successivo rispetto delle regole (poste a presidio delle minoranze) da parte delle maggioranze uscite dal voto: quasi che la democrazia fosse solo un lancio di dadi non truccati sul tavolo verde delle elezioni, e poi però lasciasse ai vincitori mano libera sulla sorte successiva dei birilli collocati su quel tavolo da un (più o meno) regolare voto.

Il regime di Erdogan è invece forse legittimo perché per difenderlo venerdì notte si sono mobilitati i muezzin dalle moschee, e in strada sono scese migliaia di persone? Se questo fosse il criterio, allora non si capirebbe perché le coalizioni internazionali siano andate a militarmente rovesciare dittatori, come Saddam in Iraq e Gheddafi in Libia, che all’inizio delle loro parabole, e in parte ancora persino al crepuscolo dei bombardamenti dei loro Paesi, godevano del sostegno esplicito di consistenti settori delle loro popolazioni.

Più sincero suona l’argomento della «realpolitik»: la Turchia è dopo gli Stati Uniti il secondo più importante esercito della Nato, è (al netto di tutte le sue ambiguità con lo Stato Islamico) un bastione della guerra al terrorismo, da una base turca partono per la Siria i bombardieri dell’alleanza; e dando ad Ankara sei miliardi di euro, l’Europa ha appena concluso un accordo (che grida vendetta per quanto straccia il diritto internazionale sui profughi) volto a fermare la partenza dei migranti verso la Grecia e a tenerne parcheggiati nei campi turchi due milioni e settecentomila.

La «realpolitik» è un argomento che può anche avere una sua (per quanto spregiudicata) dignità. A condizione che non lo si condisca con la retorica del «rispetto delle istituzioni democratiche», per giunta magari nel medesimo momento in cui dopo ogni strage terroristica si leva l’altro coro retorico: quello secondo il quale l’Occidente dovrebbe con maggiore decisione riconoscere la ragione per cui è odiato dai jihadisti, e quindi difendere con i denti i valori delle proprie democrazie presi d’assalto dai camion rivolti contro i passanti, dagli aerei lanciati contro i grattacieli, dalle bombe messe sui treni e nelle metropolitane. Ma se facciamo fatica a «crederci» per davvero noi, perché mai dovrebbero «crederci» i terroristi?


 

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